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UN ARCHIVIO PER MILANO

Lavorando sul rapporto tra la struttura della città e le cose e le persone ho pensato a un lavoro che ho da tempo in animo di fare: è un lavoro sulla città dove vivo, su Milano, una città che ha perso gran parte del suo fascino antico, che è moderna senza essere nuova, che mette insieme molte contraddizioni della civiltà delle macchine e dei consumi. La mia idea non è quella di un libro, ma di un archivio, un archivio fotografico della città di Milano. Ho pensato a Milano perché è una città che conosco poco, conosco alcune case, qualche museo, le stazioni, qualche ristorante, qualche banca, gli ospedali dove sono stato ricoverato, le poste, qualche bar, cinema, due o tre teatri, sono andato un paio di volte a San Siro. Ma della città vorrei fotografare soprattutto quello che non si conosce; cioè gli interni, le case, quello che non si vede o non si vuol vedere, o che non si vuol fare vedere, anche gli interni pubblici che non conosco, e anche quelli che conosco ma che non ho mai guardato con attenzione. Quello che vorrei fare è fotografare tutto questo senza la gente; perché quello che ci colpisce di più quando entriamo in un luogo, è il fatto che esso sia frequentato, è la gente. Invece vorrei che di gente non ce ne fosse, che fosse protagonista una certa struttura portante che chiamiamo città, una struttura inarticolata, che porta una folla anonima, che si ricambia ogni giorno, che ogni giorno passa, che ogni giorno è destinata a passare. Sono interni che non guardiamo mai, o perché siamo distratti dalla gente, o perché non proviamo alcun interesse per la gente che li abita. Case di operai, di impiegati, di professionisti, di ricchi, oppure fabbriche, aziende, mercati, carceri, scuole. Finalmente protagonisti, questi interni dovrebbero avere molte cose da raccontare su quella che è la vita nelle città di oggi. Ho capito l’importanza di fotografare degli interni senza la gente che li occupa, qualche anno fa, quando ho fotografato un dormitorio pubblico in perfetto ordine, dopo che tutti se n’erano andati: è venuta fuori un’immagine cosi agghiacciante che l’aggiunta dei tipi che normalmente vi passano le notti l’avrebbe resa o troppo fumosa o troppo tenera, come accade per certa pittura populista della fine dell’Ottocento. Inoltre ho un certo pudore per la faccia indifesa della gente; non mi piace servirmene per un mio discorso. In questi ultimi anni, spesso con motivazioni scientifiche o sociologiche, facce anonime di pazzi in preda al loro male, facce indifese di malati, si sono moltiplicate nei libri e nelle riviste. Non credo sia necessario ricorrere a questi mezzi; credo ci sia un modo di fotografare la catapecchia dove una donna vive con i suoi bambini senza metterci dentro né la donna né i bambini, e arrivare comunque a un’immagine eloquente della loro condizione, un’immagine che è obiettiva e al tempo stesso è evocativa di quella gente assente dalla fotografia. Nel ’53-54 ho fatto anch’io le mie brave fotografie coinvolgendo più gente possibile; oggi vorrei ricominciare quel discorso ma con questa chiarezza. Quelle vecchie foto di gusto neorealista mi sono care, sono i miei primi tentativi di stabilire un contatto fotografico con una realtà. Avevo voglia di mettere a fuoco un messaggio di cui mi sentivo portatore, e al tempo stesso volevo individuare il filo portante più diretto che collega la gente, gli episodi, i fatti, i luoghi. In realtà cercavo quello che solo ora mi pare di aver trovato: un discorso preciso nei fini, sicuro nei mezzi, di cui l’unico campione è proprio la foto del dormitorio pubblico. Nella città ho fatto una serie di fotografie che poi sono state usate per realizzare le scene del Wozzek con la regia di Puecher. Puecher aveva ambientato l’opera ai nostri giorni, e aveva vestito i soldati come prigionieri politici, e perciò il campo militare in cui si svolge l’azione del dramma era un lager. Venne naturale cercare le immagini da proiettare come parte determinante della scenografia in quel limbo dove la città non c’è più e non c’è ancora la campagna: ci sono le torri dell’energia elettrica, i depositi di rifiuti, i lavori in corso delle circonvallazioni, i canali che una volta erano vie di comunicazione e oggi sono fogne.
Altre immagini, che qui non compaiono nel tempo, hanno avuto Milano protagonista. Ma ho voluto tirarne fuori qualcuna dal mio archivio: una serie dei primi anni della mia attività, scattata al bar Giamaica, e mi pare fissi un momento non secondario di quegli anni: amici e artisti che in quel locale si ritrovavano e costituivano una sottile trama, in cui sempre più, in seguito, mi son ritrovato a pensare e a lavorare

Da “La Fotografia” Fotografie e testi di Ugo Mulas, Giulio Einaudi Editore Torino 1973