GERMANO CELANT - SPARTITI FOTOGRAFICI
Ogni fotografia è, in teoria, un’esperienza a sé stante, ritagliata dal flusso delle immagini che la precedono e la seguono. Introduce un’interruzione nel campo dei rapporti visivi, li solidifica e li cristallizza, produce una pausa infinita che documenta l’estraneità che è fuori di noi. Quale interruzione e pausa è marcata dal silenzio, da uno spazio che esprime la distanza tra due interlocutori, il fotografo ed il fotografato, per tentare però una relazione. La fotografia è un territorio comune dove si accumula l’estraneità reciproca del fotografante e del fotografato, è una membrana sensibile che aspira all’osmosi e ad un rapporto di unità, mantenendo però le differenze. È un interstizio fuori di ognuno, cosa e persona, in cui si riassumono le pluralità ed i modi di sentire e di vedere di entrambi. In questo senso la fotografia è duale, dispiega un mondo personale ed oggettivo, i pensieri simultanei che la attraversano, secondo una prospettiva doppia. Assunta nella sua dualità, la fotografia dà quindi luogo ad una lettura continua di territori paralleli. È un discorso legato al movimento di una persona, che con la sua macchina o strumento di registrazione, è alla ricerca del divenire della vita, ne rispecchia la filosofia di interpretazione, ma diventa anche una documentazione o una esposizione di un “panorama”, che possiede un suo movimento interno.
Per Ugo Mulas la fotografia era un doppio, non solo perché riproduce il reale, ma perché lo interrompe, attraendolo verso di sé. La concepiva infatti come un campo di forze personali, emotive e sensibili, attraverso cui raccontare, scrivere o musicare favole, poesie o spartiti visuali. Per lui le immagini o i frammenti di un mondo, che riusciva a fissare sul fotogramma o su trentasei fotogrammi, erano parole o frasi, con cui affermare un’esperienza interiore. Mediante essa metteva in discussione il suo esistere, il suo muoversi, il suo contesto culturale, il linguaggio stesso della fotografia. In questo senso, assunto oggi, il suo percorso presenta qualcosa di rituale e di magico, si lega alla sua sensibilità per seguire i riti della cultura, che vivono nelle gallerie e nei musei, nelle biennali o negli studi degli artisti e dei poeti. Egli designa continuamente uno scambio tra sguardo umano ed occhio meccanico, tra officiante e pubblico, per cercare una teatralità bidimensionale (la fotografia), capace di comunicare un momento di grazia, un’energia inaccessibile, un’istanza umana ed artistica.
Tra la sua esistenza e la fotografia non si pone quindi discontinuità. Il perimetro del fotogramma era il luogo dei suoi piaceri e dolori di vita, che una volta in laboratorio, erano sottoposti ad un lavacro purificatore per presentarli levigati e limpidi. Per lui la fotografia non era uno strumento asettico e contemplativo di registrazione, piuttosto era un trapianto del flusso vitale del suo organismo e della sua energia. Rifiutava quindi di staccare la mano sia dalla macchina fotografica che dalla carta sensibile. Voleva che le immagini trasudassero intensità e passione, non si sostituissero mai al soggetto, ma lo irradiassero di forza, lo esaltassero al massimo della sua carica poetica e mitica.
È per questo che le sue fotografie risultano oasi di sensibilità rasserenatrici, vi si consuma e brucia la poesia che appartiene al regista quanto all’attore. Sono un “altrove” offerto a tutti, luogo in cui si esprimono elementi umani e linguistici, che si chiamano ancora teatro e paesaggio, azione e pittura, ma sono semplicemente immagini.
Secondo questa prospettiva le situazioni e le figure ritratte sono esempi di condizioni impercettibili, qualcosa a metà tra due tensioni emotive, quella interna e quella esterna. Per renderle partecipi entrambe, Mulas si serve di uno strumento raffinato, basato sulle distillate atmosfere del bianco e del nero, dove gli espedienti tecnici sono ridotti, e quanto conta è lo sfolgorante lirismo e il malincuore di un particolare, di un gesto o di uno sguardo.
Si potrebbe affermare che per lui la fotografia si configura secondo piani diversi di costruzione e di lettura: l’esteriore, l’interiore ed il poetico. Il primo rappresenta la fotografia, cioè il medium linguistico, che è il vero nucleo o membrana su cui si depositano le intensità e i riti del mondo. In questo involucro che Mulas assume come tutto, “tanto è vero che amo stampare le fotografie con un piccolo margine nero, proprio perché testimonia della fine dell’immagine”(1), circolano e vibrano i caratteri sottili e personali dell’autore, che innestati ai precedenti nel continuum della vita, veicolano un dato favolistico, un noto che è meravigliante. Ma per coagulare questa triade con chiarore intellettuale e visuale, Mulas è cosciente che una fotografia non basta. Poiché non vuole “essere legato tutto il giorno e tutta la vita a pochi attimi eccezionali”, ma vuole “che ogni attimo della vita possa essere un attimo eccezionale”, capisce che deve assumere la fotografia non come “portento”, ma stabilire quale “posizione”, che partecipa di un insieme e di un movimento quotidiani, che trapassano attraverso piccoli intervalli: “la verità è tutta la nostra vita, tutta la nostra giornata minuto per minuto, ed ogni minuto può valere l’altro, e anzi deve valere l’altro (2). Essendo frammento di un esperire e di un vivere, la fotografia da sola non ha senso, come non significa molto andarla a cercare in spazi “diversi” ed inusuali, la Cina e l’India, si può trovare ovunque, nella propria camera da letto o nel proprio cortile. È là perché partecipa di altri frammenti giornalieri. Se non è posizionata in un contesto abituale perde il suo valore di insieme, non è classificabile. Mulas ha sempre sentito questa insufficienza dell’impatto eccezionale e sorprendente, l’unicum di Cartier-Bresson, ha lavorato molto di più sui trentasei fotogrammi, sul rullino pieno. Ha cercato di rispettare il tutto e di usare il tutto di un momento o di una tecnica. L’ha presentato a volte, stampando tutti i fotogrammi su una stessa lastra ingrandita, come unità organica, capendo che la fotografia separata dal suo contesto di medium e di evento subiva una valutazione diversa. È dunque per lui la pluralità dei movimenti e delle inquadrature a stabilire un rapporto spazio-temporale che afferma un’espansione dovuta alla molteplicità sensibile del mezzo. ”Nelle fotografie c’è un tempo astratto, sempre, tanto è vero che se tu guardi un provino, un contatto, tu vedi trentasei fotografie scattate in tempi diversi che possono essere scattate a pochi secondi l’una dall’altra, ma si può trattare anche di giorni, e tu contemporaneamente hai davanti tempi diversi” (3).
La ricchezza di questa soluzione, come è dispiegata nei trentasei fotogrammi su Roy Lichtenstein o su Jasper Johns, fino alla definizione del tempo, nell’omaggio Jassis Kounellis, sottolinea l’idea di Mulas di dar vita a “spartiti fotografici”, in cui le note sono sostituite dai fotogrammi e dalla loro diversità visuale, quali immagini e toni di bianco e nero. Si è sottolineato il valore di musica fotografica, per distinguere questi dalle registrazioni scientifiche e cinetiche di Muybridge. Quanto conta in Mulas non è infatti il movimento naturalistico o il tempo reale, quanto la sintesi visuale che ha qualcosa di un racconto o di un brano di immagini. Tale modo di pensare la fotografia è il massimo momento creativo e critico del suo contributo, perché fa visionare all’interno del viaggio, non solo la precisione e l’unitarietà del suo linguaggio, ma anche le sue contraddizioni. Le pone in relazione, sottolinea che rappresentano un medesimo fatto, ma con un percorso libero ed aperto. Perciò esclude l’eccezionalità a favore della normalità, non va alla caccia del portento o dell’immagine inusuale, ma sceglie “un attimo uguale ad altri diecimila attimi, non è un attimo privilegiato” (4).
Non fa eccezione se non nell’inventare un “tempo” di sensazioni in dialettica tra loro. Ecco la ragione di assumere integralmente la carica gestuale precedente all’evento in Lucio Fontana, o il viaggio nella città, dalla piazza al museo, di Marcel Duchamp.
Per Mulas infatti designare una sola immagine è riduttivo, perché si perde il processo di gestazione, la progettazione di un quadro e di una scultura. Preferisce costruire secondo un montaggio temporale che lavorando sugli intervalli produca una copia analogica del reale. È come intendere il fotografare quale processo senza fratture, dove un fotogramma indica un aspetto che però va definito dal successivo e dal tessuto unitario di tutti gli altri fotogrammi.
Non si fa quindi fatica ad individuare in tutta la sua produzione una ricerca di armonia; dal lavoro su Milano, tra il Bar Giamaica e le periferie, alla serie sulla Russia, le fotografie vivono di assonanze, non solo ambientali e tematiche, ma linguistiche. La luce e la tenebra, l’architettura ed il paesaggio diventano statuti, si scambiano posto, costituiscono sempre un unico essere. Allora per intendere l’importanza del suo muoversi bisognerà oscillare tra le polarità di una serie, compiere un andirivieni nel perimetro dell’insieme, stabilire un interscambio tra le parti, attraverso il bianco e nero per appropriarsi dell’energia rinnovata verso la vita.
Il valore magnetico del gruppo è inoltre affermazione stessa della pluralità quale significato primario di un esserci come partecipante e testimone attivo, interessato a muoversi negli interstizi delle cose e degli avvenimenti, ed è sostenuto già a partire dal 1953-1954 con i primi approcci fotografici al paesaggio degli intellettuali del Bar Giamaica a Milano. Qui il vischioso di una vita culturale da dopoguerra, ancora esaltata dai piccoli gesti esistenziali del fumare e del bere, irrompe con la sua dimensione neorealista nel mirino di Mulas. Queste fotografie, sia per la tonalità impressionista sia per il soggetto artistico (il caffè d’avanguardia), presentano contorni atmosferici, sono quasi crepuscolari. Erogano un luogo di vita esistenziale, ma in termini di sogno e di allucinazione. La luce, seguendo i riferimenti al cinema di quegli anni, si rovescia nello spazio e fa coincidere lo spessore della valenza fotografica con l’aria impregnata di vapori, dal fumo dell’uomo al Bar, Piero Manzoni, all’individuo in letto, Luciano Bianciardi.
La situazione è da passioni medie, i personaggi sono prigionieri di una certa “fissa”, non essendo ancor noti si riversano tutti con la medesima equivalenza, nello stesso tessuto fotografico. Si offrono quale amalgama, in cui ogni persona vibra nell’altra.
È da questi insiemi pulsanti, a volte ignoti ai più, che sgorga l’interesse di Mulas per le situazioni casuali e trovate, secondo l’ipotesi dadaista del “ready made”. La sua fotografia diventa allora automatica, coglie le immagini e le ripone in un recinto sacro, in un territorio retorico e linguistico, l’inquadratura con cornicetta nera, e le fa parlare. La visione della situazione è quindi trovata, o meglio cercata là dove è garantita, come alla Biennale di Venezia. Subito dopo la scoperta del Giamaica e del suo clima formato da pittori e da scrittori, Mulas si reca a Venezia, nei padiglioni dei Giardini della Biennale, “non tanto per capire quello che succedeva, ma più che altro per partecipare a questo grande rito che si celebrava ogni due anni, aveva i suoi sacerdoti e tutto un suo rituale speciale” (5).
Qui il fluido di coesione è il rito, la forza collettiva che potenzia l’evento. Non riprende quindi le opere d’arte o le sale finite, quanto il frenetico ed il gratuito, il non finito di un essere insieme per il rito della Biennale. Segnala le tavolate degli artisti al Bar Paradiso, gli incontri in Piazza San Marco. Svincola la fotografia dalle materie inerti dell’arte ed inquadra il reticolo di relazioni mondane e sociali, intellettuali e politiche. Nell’area del palcoscenico artistico espone i pezzi corali, il senso del cerimoniale e i movimenti di superficie dei critici e dei mercanti, degli scrittori e dei poeti. A volte la macchina fotografa il solitario Max Ernst o Ungaretti, che non richiamano il gruppo, quanto un altro tipo di socialità spettacolare, il contesto urbano. L’artista è immerso nella città rovesciato in un luogo esemplare, perché teatro e rappresentazione di sé, come il vaporetto o Piazza San Marco. In entrambi i casi, la nozione di fotografia si impregna di una sacralità, umana ed urbana, dove contano gli intervalli delle persone tra di loro o tra le architetture delle città.
Ecco quindi che gli insiemi delle Biennali di Venezia, dal 1954 al 1972 formano un tutto, studiato scientificamente da Tommaso Trini, proprio perché Mulas costruisce una grande opera, il cui spartito è legato alle migliaia di “note” fotografiche.
In particolare il punteggiato che regge il ritmo temporale e poetico della sequenza di Alberto Giacometti, nel 1962, apre un’altra frammentazione, che ruota sul singolo, ritratto nella sua “irrappresentabilità”, quando allestisce una sua mostra. Le azioni intime e private di questo costruire uno spazio vengono qui restituite come muoversi dolce, uno strusciare di passi al limite della parodia chapliniana, che attiva però lo sguardo perché chiude il cerchio virtuale tra il corpo dell’artista e la sua opera. Afferma l’unione di gesto e di pensiero, di fisionomia e di scultura.
L’energia che alita nel passo di Alberto Giacometti, mentre sposta un piedistallo o un suo dipinto, oppure si concentra nelle sue mani e nel suo sorridere, dà un’interiorità umana alle sue figure.
Dopo le immagini di Mulas si percepisce che esse sono la trasfigurazione di un soffio matematico, che parte dal suo camminare, dal muover un piede dietro l’altro, per innalzarsi sino alla testa sostenuta da un esile corpo; il corpo stesso che il fotografo ritrae.
La fragilità di Giacometti si trasforma nel 1965 nella finitezza e nella lucidità di Lucio Fontana. Qui l’insieme di fotogrammi è segmentato a testimoniare l’essere teso e desto, cosciente e dominato del taglio, che l’artista milanese persegue. Le immagini non fanno più sentire il vivere l’arte, ma il tutto pieno del progettarla e del farla. Assenza del muoversi vorticoso ed infantile, tipo Alexander Calder, a favore cli un procedere essenziale. Gesto intensificato e vigorosa coscienza di un agire intenzionale che canalizza l’idea quanto il corpo.
In linea di principio la chiarezza e la riduttività dell’insieme su Fontana potrebbe far pensare che l’immagine controllata produca forza, mentre l’informe la distoglie. Tuttavia Mulas ha sempre lavorato sull’intuizione, sul caso e sull’eventuale, secondo la pluralità delle esperienze vissute giorno per giorno. Pertanto esistono nel suo viaggio anche momenti informali ed aleatori, dove il soggetto banale viene rigenerato. Nel 1953-54 si affida alla magia di una città come Milano o, nel 1960, ai piani socializzanti e comunitari del popolo russo. In questi casi i suoi fotogrammi registrano due ritmi, quello dal pieno al vuoto di una città percorsa da pochi passanti o bambini che giocano a palle di neve, colti nel momento di sparire o di essere immobilizzati, come letti d’ospedale, oppure quello che va dal vuoto al pieno, in cui la carica delle persone, con i loro balli e i loro canti, i loro volti pieni e segnati, la loro iconografia popolare, travolge il silenzio delle strade, dei parchi e delle pinacoteche russe.
Quanto più l’ambiente trabocca nella fotografia, tanto più Mulas lo rende palpabile e lo forma perché lo fa respirare allo stesso soggetto. Ne ritaglia un’angolazione o una condizione visiva per cui esso si dà come contenuto imprevisto, modo di vivere e di abitare. La sequenza di David Smith nella vecchia fucina dell’Ansaldo di Voltri, nel 1962, ingloba tutte le componenti emotive del costruire in uno spazio d’immagini. Riducendo l’artista ad una particella del tutto, formato dal grande capannone e dai residui preindustriali, il fotografo ripone nel grembo materno lo scultore. Gli crea un involucro protettivo e nutriente, che non rende drammatica l’espulsione dell’opera in un ambiente ostile, freddo e accecante, tipo musei e gallerie, ma ne segue gli sviluppi organici e quasi naturali. Fissa un’architettura della sicurezza visiva e plastica, in cui l’artista si abbandona, fa degli strumenti e delle materie trovate i suoi punti di forza. Nutre con essi i suoi artefatti, gli crea un clima di cautela e di rispetto, di risonanza storica e formale.
Lo stesso discorso è valido per la mostra di scultura all’aperto di Spoleto, nel 1962, dove la griglia urbana dell’antica cittadina si fa estensione fisica e visiva degli oggetti costruiti da Pietro Consagra e Henry Moore, Alexander Calder e Nino Franchina. Le strade e le piazze, i vicoli ed i saliscendi si trasformano in un vissuto dell’arte. Qui le memorie della storia, come i suoi abitanti, si mescolano alle forme astratte ed organiche degli artisti, si confondono con esse, si fanno vicinanza ed intimità visiva, tanto da scambiarsi i ruoli, come la figura della popolana e il complesso disteso di Moore oppure lo svolazzare degli abiti delle monache, rispetto alla tensione aerea della scultura di Consagra.
Ma dove si realizza la maggiore organicità tra fondale e gesto, era scena ed azione artistica è certamente nel teatro, ed a questo linguaggio Mulas dedica molta attenzione, attraversando furtivamente il Teatro di Varietà oppure collaborando con Giorgio Strehler e Puecher al “Galileo” ed al “Woyzeck”.
Il teatro come la recita, è simbolo di movimento e di trasformazione. Segue le stratificazioni emotive e comportamentali del personaggio e del suo organismo, coinvolge lo spettatore nel gioco delle esperienze. È molto simile all’idea che Mulas ha della fotografia. La sua scena, cioè il fotogramma, è infatti il momento di fusione, dove la realtà si trasfigura, viene riprodotta e fatta vedere, diventa coscienza, diventa un altro modo di vedere. Ed a Eduardo de Filippo, e alle sue trasformazioni, è affidato il compito di richiamare il ritmo ed il tempo della “maschera”, cioè della riproduzione di un’emozione o di un sentimento, artificiale perché ricostruito fuori di sé. Nel 1961 il suo sguardo ed il suo sorriso, il muovere delle ciglia ed il trucco sono frammenti che messi in sequenza rendono l’analogia della trasformazione scenica e fotografica, entrambe affidate al filtro di un’interpretazione che scaturisce dall’eloquenza di un meccanismo, attore e camera fotografica, dietro cui sta sempre una persona.
Come è già stato acutamente sottolineato da Arturo Quintavalle e Hendel Teicher, la fotografia per Mulas era un boccascena, dentro cui innescare il valore teatrale di suoi soggetti. Sotto il suo stimolo registico e la sua inquadratura attori come Alexander Calder, Marcel Duchamp, Fausto Melotti, Jean Fautrier, David Smith e tutti i pop americani si sono assoggettati ad attivare le suggestioni plastiche e visive del loro corpo, quanto dei loro gesti. Si sono autotrasformati in un loro oggetto o in una loro scultura. Ogni fotogramma che li riguarda è una scena, non come territorio che imita il reale, ma dove si fa la vita. In essa Mulas rivendica il compito di mettere in crisi la “posa” del suo soggetto, lo porta dentro le sue immagini, lo fa suo. Questo si fa fanciullo, come Calder, che gioca con i suoi mobiles, o musicista, come Fausto Melotti, che contempla le sue onde musicali, oppure essere filosofale, come Duchamp, che certifica con la sua passeggiata e la sua partita a scacchi l’interesse per un silenzio che è vortice mentale.
Tutti i ritratti di Mulas raggiungono sempre tale livello di massima intensità, quasi cercasse, nel suo vagabondare per il paese della cultura, solo quelle figure mosse da un’energia inesauribile, capace di trasmettersi sul negativo.
Sia le presenze degli anni tra il cinquanta ed il sessanta, da Piovene a Buzzati, da Quasimodo a Bacchelli, da Morandi a Solmi, che gremivano lo spazio della scena italiana, quanto dopo il 1964 le figure internazionali, da Alberti ad Hamilton, da Barnard a Miro’, Blixen e John Cage, Visconti e Pasolini, lasciano rifluire attitudini individuali inusitate. La fotografia diventa per loro uno specchio, dove va a rifrangersi la loro identità quanto il loro valore di enigmi intellettuali. E sul mondo mistero degli artisti si apre per Mulas, nel 1964, dopo la Biennale di Venezia che vede il trionfo della pop, un altro scenario, quello dell’arte americana e newyorkese. L’impatto di questo diverso linguaggio visivo, basato sulla ridondanza e sull’esplosione dei segni e delle figure banali, lo spinge a liberare un’altra energia: vuole fotografare di più di quanto non possa fotografare, qualcosa di diverso dalle sue possibilità. È un sovrappiù che precede e segue ogni fotografia, un altro mondo che era fuori dalla condizione che vuole affrontare, ”per captare altre cose”(6).
Senza alcun motivo, senza l’ansia di cercare il perfetto raddoppiamento, Mulas si reca a New York e dilata l’orizzonte della sua costruzione e della sua interpretazione. Oltre ad interpretare sé stesso, la sua passione, che si chiarisce, ora, anche attraverso il dialogo con il fotografo Robert Frank, come un linguaggio articolato e cosciente, arriva a “scrivere” un testo fotografico eccezionale, che nel 1967 diventerà il libro “New York, arte e persone”. Volendo portare al massimo compimento l’esegesi per immagini di un entourage, che si affermerà quale leader dell’arte mondiale, Mulas lavora sul significato preliminare del dipingere di Jasper Johns, dà senso all’accumulo caotico di John Chamberlain, ricostruisce filologicamente il procedere scultoreo di George Segal, interpreta la neutralità e l’asetticità di Andy Warhol e permette infine lo sfogo teatrale, tipico dei suoi happenings, a Claes Oldenburg.
L’arte di New York ed i suoi vati, tra cui il gallerista Leo Castelli e il teorico Alan Solomon, si offrono, accanto ai lofts dei collezionisti e degli artisti, come una serie cli fenomeni individualisti, intersecaci da principi professionali e dal gioco. Per decifrarli il fotografo documenta il loro mondo ignoto, lo fa diventare noto. Lo apre allo sguardo e gli dà chiarezza. Libera l’intimità dei loro segreti e delle loro matrici iconografiche, trasforma la presenza di Roy Lichtenstein in un fumetto, evidenzia l’impersonalità ossessiva del dipingere di Frank Stella, comunica l’amore del vuoto e del minimo di Barnett Newman. Ma per ottenere questa interpretazione, getta avanti fotogramma su fotogramma, così da separarlo inizialmente dal suo insieme. Produce un inseguimento di immagini, che con discrezione si possono isolare, la cui fuga in avanti indica la simultaneità irresistibile e la reciprocità della sua scrittura a trentasei fotogrammi. Ed è proprio creando accostamenti che si capisce come l’epurazione per Marcel Duchamp dell’arte nella vita e nel gesto quotidiano sia complementare all’epurazione per Jasper Johns della realtà nell’arte.
In fin dei conti il corpo dell’artista, fotografato da Mulas mentre dipinge, si immerge e si annulla nella tela, diventa la sua “ombra”. Per Johns le immagini dipinte a cera o gli oggetti fusi in bronzo sono intelleggibili nella loro diversità soltanto per la loro carica sensuale. Sembrano offerti come segni inerti, ma resi organici. Per questa ragione il fotografo lo riprende sempre “in organico”, con il suo corpo, i suoi piedi, la sua mano e la sua ombra dentro il quadro. Ne assorbe l’attività e la procedura manuale, quando disegna numeri dall’ 1 al 9 o traccia la mappa, dove conta il groviglio dei colori e delle linee, rispetto all’anonimato del soggetto.
La sfiducia nella spontaneità e nella soggettività in Andy Warhol è sostituita dalla cultura del manichino o dalla riproduzione seriale. Egli assume una posizione cinica e si lascia gestire, muovere e comandare. Esalta la comunicazione non verbale di un corpo rigido, per diventare nelle fotografie di Mulas una natura morta.
Altrove, in Roy Lichtenstein, il tentativo è di mettersi all’altezza della comunicazione di massa, del fumetto. L’ idea è di liberare la pratica artistica dal preteso senso univoco della trasgressione al discorso dell’industria del consumo, cercando di stabilire un contatto. Invece che imporre nuove icone, scartandone altre, si dispiega la coscienza di quelle esistenti. E qui Mulas rende, in maniera sottile ed affascinante, la situazione pittorica con il bagaglio di ritagli di giornali e di frammenti di cartoons. E siccome per i pop l’ipotesi dell’altrove non risiede nell’esorcizzare il reale, ma nell’accettarne la sua catastrofe ed il suo caos, eccolo affondare lo sguardo fotografico nel disordine, che è matrice dei “combine-paintings” di Robert Rauschenberg, o nell’accumulo scomposto, di materie e di oggetti che occupano gli spazi di James Rosenquist e di John Chamberlain. Altrove l’azione investe l’oggetto e nasce un’altra confusione, quella degli events, in cui il corpo delle danzatrici Debora Hay e Trisha Brown, come nella performance “Spring Training”, 1964, e “Maproom II”, 1965, di Robert Rauschenberg, si fonde con l’oggetto, partecipa dei materiali eterogenei, banali e quotidiani. E qui sgorga un’altra analogia, che lega Mulas sia a Duchamp che ai pop. Per ognuno il risultato visivo è basato sulla massima osmosi tra azione soggettiva e segno oggettuale, così la fotografia si incarna negli individui, mentre gli individui si identificano o ripiegano in essa.
Sono entrambi “calchi”, bi e tridimensionali, che danno spessore a “fantasmi” che oscillano tra l’essere ed il non essere: il processo scultoreo di George Segal, dove il corpo si fa stampo e matrice, ne è la metafora più palese. La particolarità dei pittori pop a designare una zona del quotidiano spinge Mulas a concentrarsi sempre più sull’ inosservato e sul non evidente. Le sue fotografie dal 1964 si focalizzano sulle assenze, sui movimenti di vuoto e di anonimato. Segue la piccola fotografia di Frienlander, vista nello studio di Jim Dine, dove si ritrae un televisore acceso. Ed è in questo limbo o spazio dell’assenza che si muove Marcel Duchamp, in Washington Square, l’artista che ha reso significante l’anonimato. Alla sua “assenza” creativa e ricerca di inespressività, Mulas dedica una sequenza che nel presentare, a mala pena, il camminare o il volto dell’artista, fa capire a tutti noi che il suo “quotidiano” reso pubblico ha mutato il corso della storia dell’arte moderna.
E per continuare a esperire questa realtà banale, il fotografo si tuffa nel deserto urbano di New York. Va per strada e strappa all’anonimato, come Duchamp, una folla o un gruppo, testimoni del nulla newyorkese. Isola una porzione di metropolitana o un marciapiede, un gruppo di bambini o di signore, per evidenziare il “senza evento”, quella vita ready made, già fatta, che può generare, sempre secondo dada, il massimo della bellezza e della sorpresa. Ma gli intervalli tra i grattacieli e la gente della metropoli statunitense non sono diversi dal ”non accade nulla” della pittura di Barnett Newman. Con un salto a lato imprevedibile, Mulas si colloca nell’interstizio tra studio e firma dell’artista, tra progetto e pittura, dissolve il momento della creatività e fa intervenire nuovamente il valore del silenzio. Raggiunge il valore minimo di visibilità, riducendo l’eco del protagonismo a favore delle condizioni potenziali dell’atelier, che si chiude tra i limiti di un passare, da sinistra a destra, di una linea-corpo, quella dello stesso Newman. È interessante sottolineare che, nella fotografia, l’immagine dell’artista appare sfuocata, perché in movimento, quasi Mulas volesse darle “meno peso”, tendesse a mettere tra parentesi il campo fotografico, come le linee dell’artista la superficie della tela: “the less, afferma Newman, the stripes declare themselves, the less weight they have, the more they resist seeing, the less they act as equal to a more important than the coloured surface, the better the painting probably is”. La pittura senza confini dell’artista americano equivale alla fotografia senza confini di Mulas.
A partire dal 1967 la vita segreta che circola nel crogiuolo fotografico di Mulas decelera. Dopo l’esperienza americana, le motivazioni esistenziali si fanno più forti, tanto da mettere in discussione la propria vita di “fotografo dei pittori”. Il pericolo è quello di scandire il proprio percorso futuro su soggetti “imposti”, proprio quando la maturità, accompagnata da una tragica malattia, chiedeva la germinazione di prove e di verifiche nuove e diverse.
Così, seppur continuasse ad essere sedotto dal linguaggio dell’arte, tanto da continuare i reportages sulla Biennale di Venezia, a ritrarre gli artisti al lavoro, da Albero Burri a Michelangelo Pistoletto, da Enrico Castellani a Mario Cerali, oppure a collaborare con essi per realizzare libri, come quelli di Alexander Calder e di Pietro Consagra, la ricerca di un “certo” sguardo sulla fotografia lo spinse ad andare verso il nucleo vitale del processo fotografico, là dove gli elementi si fanno primari ed essenziali. Spogliatosi, come i grandi tragici, della propria individualità, Mulas riesce a restituire al fotogramma una vita nascosta. Fa irrompere sulla carta sensibile il fuoco di un essere autonomo, che aveva dimenticato sé stesso, divorato dall’occhio dell’altro. Nascono allora le “Verifiche”, fotografie nude e naturali, che vanno sino al fondo delle immagini. Quest’ultimo insieme, sino al 1972, cerca di enfatizzare la graduale scomparsa del soggetto Mulas a favore dell’idea, del concetto e del processo fotografico. Le “Verifiche” rifiutano ogni carattere personale ed aspirano ad ammettere solo una linearità razionale, che riguarda l’analisi del fotogramma, il tempo della sequenza, lo sviluppo del materiale, i metodi della ripresa. Ogni entità che non rientri nel suo perimetro linguistico, è considerata “estranea”. Siamo quasi ad un uso scientifico e filologico del linguaggio fotografico, per cui si espellono tutti i valori letterari e biografici, per ridurre quasi la fotografia a filosofia del vedere e del registrare, secondo una logica molto pragmatica. Quanto interessa è ora l’operazione primaria ed essenziale: la carica della macchina fotografica, la messa a fuoco, l’inquadramento, lo scatto, lo sviluppo, l’ingrandimento, il taglio.
Elementi che Mulas smonta per verificarne l’uso e la funzione. Arriva persino, nella Verifica 11, ad annullare la presentazione dell’opera, per definire il grado zero della sua origine. Il suo lavorare procede allora non per gusto o per caso, né per reazione emotiva o partecipazione, ma per “investigazione”. Evidenzia le proprietà complesse dei rapporti tra linguaggio fotografico ed immagine. Le “Verifiche” sono dodici e diventano astrazione di un’astrazione.
Portano alle estreme conseguenze i concetti di materia e di silenzio fotografico. Fanno risuonare un rullino vergine, nell’Omaggio a Niépce, per definire il processo di condensazione luminosa sulla superficie sensibile; oppure svelano il segreto del ritocco, ne “l’uso della fotografia: ai Fratelli Alinari”, o ancora il tempo fotografico o l’ingrandimento. La fotografia riflette sulle sue caratteristiche e sulla sua fisionomia, si autoritrae. Si offre come specifico temporale e quale didascalia, “a Man Ray”, si trasforma in orizzonte, “il sole, il diaframma, il tempo di prova”, o in presenza della propria presenza, “Ritratto con Nini”.
Ma come arriva Mulas a tale assolutizzazione, che trasforma la ricerca fotografica in coscienza di sé stessa? Dopo anni di fotogrammi scagliati su personaggi e gesti, paesaggi ed attori, si accorge forse drammaticamente che come la vita umana, la fotografia esiste per sé, per la sua materia vitale. Come la vita ha un suo corpo, così l’immagine è una materia, l’immagine è un processo, l’immagine è un tempo, e sono tutti la stessa cosa. Non è quindi più necessario rifarsi ad altri, “posare” per costruire e creare, basta starsi a sentire. Si tratta di dedurre dal proprio interno e dalle proprie componenti “organiche” la linfa che sostiene la vitalità di un essere. Dal 1970 Mulas ritorce la visione fotografica sui suoi “centri” e sulle sue materie elementari. Con le “Verifiche”, attuando un gesto di introversione creativa che lo avvicina definitivamente al linguaggio dell’arte, sostituisce all’inquadratura e al boccascena fotografico una superficie che “non riguarda alcuno”, se non l’idea o il linguaggio della fotografia. Propone insiemi che sono una completa messa in discussione della tradizione e definisce un’apertura, dove possa scorrere una nuova dimensione del fotografare. Secondo questa l’immagine diventa materia autodeterminata, agisce e reagisce, e sul suo volto bidimensionale appaiono le infinite espressioni del suo essere. Questa volta invece di propagare, con un’attitudine “realista” e documentaria, il fuori di sé, la fotografia si specchia in sé stessa, lascia passare solo la luce che la riguarda.
Non è casuale che ne “L’operazione fotografica”, dove Mulas si ritrae “cancellandosi”, si affermi che il fotografare spossessa il fotografo della sua immagine, gli copre il volto: è un processo onnivoro che divora chiunque. La sua incandescenza, rappresentata dalla luce che si riflette nel piccolo specchio, fonde ed espropria le immagini. Quanto rimane è ombra, e questa è la figura vincente. Ma se la traccia si impone sul corpo sarà la maschera a vincere sul volto. In “L’uso della fotografia”, la negazione del reale passa attraverso il ritocco fotografico del volto di Vittorio Emanuele Il.
L’immagine coagulando una figura o un momento, un punto nella vita, finisce per fissare un’identità fittizia. Pertanto l’accostamento dei due ritratti del re ne secerne il “falso essere”. Allora, se per fotografare bisogna rimuovere sé stessi come “volti” oppure lavorare sulle mediazioni che informano il mondo, producendo “falsi” messaggi, cosa rimane di questo linguaggio? Il tutto pieno della macchina, dello sviluppo e del laboratorio. Per non cadere neI “falso essere” sarà importante parlare di obiettivi, di diaframmi, di acidi, di ingrandimento, dove il “reale” è eliso per far spazio alla coscienza del tessuto oggettuale e del processo della fotografia.
L’ultima verifica è dedicata a Marcel Duchamp e chiude il ciclo iniziato con I’ “Omaggio a Niépce” proponendo la stessa immagine attraversata da fenditure che ricordano quelle del “Grande Vetro”. Attraverso di essa si “guarda attraverso”, al di là della fotografia. “La fine delle verifiche, per Marcel Duchamp” costruendo con la prima una doppia porta, chiude ed apre contemporaneamente, oscilla tra il dentro ed il fuori della fotografia, si affianca a Duchamp per dire che la fotografia è uno strumento a più sensi, come l’arte. Così la discesa nelle viscere dello statuto fotografico, insieme alla sua “esposizione”, gli permette di scoprire che la fotografia, come il readymade di Duchamp, è un metodo di mettere fuori strada i sistemi e connotarla. La stessa immagine spezzata produce uno spaesamento di sensazione, dove tutto ritorna in discussione e si fa possibile.
Rinasce.
L’ultimo lavoro di Mulas è proprio questo, il tentativo di secernere il grembo fotografico, là dove si nasce ad una nuova condizione dell’essere, per immagini o senza immagini.
Spartiti Fotografici
In “Ugo Mulas”, Federico Motta Editore, Milano, 1993
Ugo Mulas, intervista di Arturo Carlo Quiotavalle, in “Ugo Mulas, immagini e testi”, Istituto di Storia dell’arte, Università di uma, Parma, maggio 1973, pp. 17-18.
op. cit., pag. 19 op. cit., pag. 21 1 op. cit., pag. 19 op ctt., pag. 13 op. cit., pag. 47