Le verifiche 1968-1972
Nel 1970 ho cominciato a fare delle foto che hanno per tema la fotografia stessa, una specie di analisi dell’operazione fotografica per individuarne gli elementi costitutivi e il loro valore in sé. Per esempio, che cos’è la superficie sensibile? Che cosa significa usare il teleobiettivo o un grandangolo? Perché un certo formato? Perché ingrandire? Che legame corre tra una foto e la sua didascalia? ecc. Sono i temi, in fondo, di ogni manuale di fotografia, ma visti dalla parte opposta, cioè da vent’anni di pratica, mentre i manuali sono fatti, e letti, di solito, per il debutto.
Può darsi che alla base di queste mie divagazioni ci sia quel bisogno di chiarire il proprio gioco, così tipico degli autodidatti, che essendo partiti al buio, vogliono mettere tutto in chiaro, e conservano rispetto al mestiere conquistato giorno dopo giorno, un certo candore e molto entusiasmo.
Ho chiamato questa serie di foto Verifiche, perché il loro scopo era quello di farmi toccare con mano il senso delle operazioni che per anni ho ripetuto cento volte al giorno, senza mai fermarmi una volta a considerarle in sé stesse, sganciate dal loro aspetto utilitaristico. La prima di queste foto o verifiche è quella che ho dedicato a Niépce. Del quale ci rimane una sola sbiadita immagine, una foto fatta dalla finestra della sua casa a Gras. Sono passati da quel giorno circa centocinquanta anni, ma quel tempo, per un fotografo, è già mitico: un tempo in cui si parlava di foto fatte dal sole, di oggetti naturali che si delineano da sé senza l’aiuto della matita dell’artista; un tempo in cui uno scienziato particolarmente fantasioso e privo di fiducia nella abilità della propria mano, si convince che deve esistere un mezzo più efficace della matita infedele per catturare queste immagini fugaci, e lo trova; e un altro scienziato, presentando l’invenzione di Daguerre, può dire che, nella camera oscura, le immagini creano sé stesse.
Un tempo mitologico che si brucia nel giro di pochi anni, e con esso il sogno di aver trovato finalmente il modo di sganciare la mano inesatta o tendenziosa dell’operazione creativa. In pochi anni la fotografia diventa uno dei più grandi affari; ovunque nascono industrie, quasi ogni giorno si registrano nuovi brevetti. Già Nadar scrive con penosa ironia: «La fotografia, questa invenzione mirabile alla quale hanno collaborato i cervelli più straordinari, che affascina le menti più fantasiose, e la cui effettuazione è alla portata dell’ultimo degli imbecilli».
Sognata per lunghi anni dai suoi inventori come portatrice di verità, e quindi come liberazione per l’uomo dalla responsabilità di rappresentazione della stessa, in breve si trasforma nel suo contrario; proprio per la fiducia che chiunque ripone nella sua oggettività, nella sua meccanica imparzialità, la fotografia si presta a fare da supporto alle operazioni più ambigue. La fotografia non diede all’uomo la certezza di rappresentare fedelmente sé stesso e il mondo, come forse sognavano Niépce e Fox Talbot, ma finì in parte col favorire una élite, quella dei pittori, che scaricarono sui fotografi le operazioni servili, o quasi, che fino a quel punto rappresentavano uno degli aspetti più costanti, ma più frustranti, del loro mestiere. Anzi i peggiori fra essi si improvvisano fotografi e spesso con successo, perché il nuovo mezzo è più congeniale ai loro interessi e alle loro doti naturali, mentre altri usano la fotografia come modello per la loro pittura, e può capitare che, di questa, vedi Hill, non rimanga poi traccia alcuna, mentre a parlare del loro valore restano proprio le fotografie.
Oggi la fotografia con i suoi derivati, televisione e cinema, è dappertutto in ogni momento.
Gli occhi, questo magico punto d’incontro fra noi e il mondo, non si trovano più a fare i conti con questo mondo, con la realtà, con la natura: vediamo sempre più con gli occhi degli altri.
Potrebbe anche essere un vantaggio; migliaia di occhi invece di due, ma non è così semplice. Di queste migliaia di occhi, pochi, pochissimi, seguono un’operazione mentale autonoma, una propria ricerca, una propria visione. Anche inconsapevolmente, le migliaia di occhi sono collegate a pochi cervelli, a precisi interessi, a un solo potere. Così, inconsapevolmente, anche i nostri occhi, anziché trasmetterci informazioni genuine, magari povere, scarne, ma autentiche, ci investono con infinite informazioni visive, doppiamente stordenti, perché spesso la loro falsità si cela sotto una sorta di splendore. Si finisce col rinunciare alla propria visione che ci pare così povera rispetto a quella elaborata da migliaia di specialisti della comunicazione visiva; e a poco a poco il mondo non è più cielo, terra, fuoco, acqua: è carta stampata, fantasmi evocati da macchine sempre più perfette e suadenti.
So bene che la realtà è più complessa e più ambigua. Ma questo discorso ha un solo scopo: ricostruire e capire quello su cui riflettevo alcuni anni fa, quando ho cominciato a pensare a questa foto e non-foto che è appunto il lavoro dedicato a Niépce. Il bisogno di chiarire a me stesso il perché di certe affermazioni e di certi rifiuti, per esempio un’idea che non mi andava giù era quella tanto diffusa negli anni cinquanta, quando ho cominciato a fotografare (sviluppatasi, credo, su una cattiva lettura di certe dichiarazioni o di certe foto di Cartier-Bresson, portate poi all’esasperazione da un certo tipo di giornalismo), idea secondo la quale una foto non contava tanto per la sua verità quanto per l’effetto, per il colpo che poteva produrre sulla fantasia del lettore.
Da allora questo gioco non ha fatto che degenerare, non solo nel foto-giornalismo, ma in ogni campo dove la foto è mercificata, nel cinema, che si fa ogni giorno più volgare, più aggressivo pur di compiacere il gusto del pubblico che, come un drogato, ogni giorno, ha bisogno di una dose di più. Certi film che vent’anni fa ci sembravano drammatici, oggi ci fanno a malapena sorridere. Diverso in parte è il caso della fotografia, che, bene o male, lavora sulla realtà come scriveva proprio Cartier-Bresson presentando nel 1952 Images è la sauvette. «A travers nos appareils, nous acceptons la vie dans toute sa réalitè», che è un condensato di tutto quello che si può dire o scrivere sul fotografare. Assai meno chiaro è quando scrive che si deve avvicinare il soggetto a passo di lupo, e che il fotografo è sempre alle prese con degli istanti fuggitivi. Frasi, queste ultime, che, sganciate dal loro contesto e collegate a certe foto limite dello stesso Cartier-Bresson, possono aver dato un contributo alla diffusione del gusto per una fotografia di rapina, di caccia all’immagine più rara e imprevedibile, per cui il fotografo sarebbe un predatore in continuo agguato (si diceva allora – non so se sia verità o leggenda – che Cartier-Bresson non si staccasse dal suo apparecchio nemmeno quando sedeva a tavola per mangiare) pronto a carpire l’istante fuggitivo, non importa quale, purché eccezionale, possibilmente unico e irripetibile.
Non è che questa teoria non abbia i suoi lati suggestivi e veri, ma non riuscivo ad accettare l’idea di tutta una vita passata alla macchina in attesa di questo raro evento, di queste poche decine o centinaia di attimi privilegiati da raccogliere poi in un album o in un libro come il cacciatore attacca sui muri di casa i trofei più significativi. Io rifiuto questa idea o teoria dell’attimo fuggitivo, perché penso che tutti gli attimi siano fuggitivi e in un certo senso uno valga l’altro, anzi, il momento meno significativo forse è proprio quello eccezionale. Nello stesso senso non ho mai amato fotografare paesi lontani, esotici, non ho visto la Cina, né l’India, né il Giappone, né l’America del Sud, né la Lapponia o l’Oceania, anche se il mestiere mi ha costretto qualche volta a lunghi, noiosissimi viaggi. Non voglio negare l’utilità dei viaggi, sia quelli fatti per diporto, sia quelli di studio, purché non si stia sempre con l’occhio incollato al mirino fotografico; perché penso che un fotografo possa correre avventure non meno eccitanti e istruttive girovagando a piedi tra Porta Romana e Porta Ticinese, magari esplorando gli appartamenti degli inquilini del suo stesso stabile, dei quali spesso ignoriamo perfino il nome. Ciò che veramente importa non è tanto l’attimo privilegiato, quanto individuare una propria realtà; dopo di che, tutti gli attimi più o meno si equivalgono. Circoscritto il proprio territorio, ancora una volta potremo assistere al miracolo delle «immagini che creano sé stesse», perché a quel punto il fotografo deve trasformarsi in operatore, cioè ridurre il suo intervento alle operazioni strumentali: l’inquadratura, la messa a fuoco, la scelta del tempo di posa in rapporto al diaframma, e finalmente il clic. Qui, «grazie all’apparecchio, noi accettiamo la vita in tutta la sua realtà», quindi anche in ogni suo “attimo fuggitivo”, e siamo giunti, o tornati a quel tempo mitico cui accennavo all’inizio, dove «gli oggetti si delineano da sé, senza l’aiuto della matita dell’artista».
Al fotografo il compito di individuare una sua realtà, alla macchina quello di registrarla nella sua totalità. Due operazioni strettamente connesse ma anche distinte, che, curiosamente, richiamano nella pratica certe operazioni messe a punto da alcuni artisti degli anni venti: penso ai ready made di Marcel Duchamp, a certi oggetti di Man Ray, dove l’intervento dell’artista era del tutto irrilevante sotto l’aspetto operativo, consistendo nell’individuazione concettuale di una realtà già materializzata che bastava indicare perché prendesse a vivere in una dimensione «altra», cosicché l’oggetto, fino a quel punto identico a mille altri, cominciava a inserirsi in una sfera ideale sganciata per sempre dal mondo inerte delle cose.
A questo punto, mi pare utile riprodurre alcune parole tratte dal testo che Marcel Duchamp pubblicava in The Blind dopo che gli organizzatori del primo Salon des Indépendants di New York, nel 1917, rifiutarono di esporre la Fontana, il famoso orinatoio firmato Richard Mutt (nome di un fabbricante di articoli sanitari), ma inviata da Duchamp: «Non ha nessuna importanza che Mutt abbia fabbricato la fontana con le proprie mani oppure no; egli l’ha scelta; egli ha preso un elemento comune dell’esistenza, e l’ha disposto in modo che il significato utilitario scompare sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista; egli ha creato un nuovo pensiero per tale oggetto». E che cosa è questo mio oggetto dedicato a Niépce, se non un ready made, sia pure con tutte le varianti del caso? Cioè «una banalità», come scrive Marcel Jan nel suo libro sul surrealismo, «che è il punto di partenza di una serie di sviluppi complessi». Il rullo non utilizzato, non impressionato ma solo sviluppato, fissato e provinato, perde il suo significato utilitario, dà inizio a una serie di reazioni che si sono concretizzate in maniera quasi automatica in quella serie di foto che ho raccolto sotto l’unico titolo di Verifiche.