ARTURO CARLO QUINTAVALLE
UGO MULAS E LA POETICA DADA
Scrive Ugo Mulas di aver vissuto le inaugurazioni delle Biennali, l’ansia dell’attribuzione dei primi premi, oppure, a New York, gli incontri di studio del gruppo degli artisti pop, le cene insieme, le relazioni, i rapporti. Dice ancora Mulas che degli artisti, dei personaggi del suo racconto, un racconto fotografico, vuole cogliere il gesto, il rapporto con l’opera, con l’ambiente, vuole individuare lo spazio e quindi le possibilità di azione. Mulas non tende a dare alle singole azioni un senso simbolico, né a porre sé stesso come inventore di un atteggiamento, quanto piuttosto a vedersi come un testimone-interprete; tipico, in questo senso, il modo di ripresa del volume sui pop americani, con Mulas appunto come a parte, isolato forse anche per ragioni linguistiche dal contesto, eppure estremamente presente al processo inventivo delle opere che ha tanto genialmente tradotto a livello di immagini. Mulas comunque, alla fine degli anni cinquanta, è nato all’interno di una poetica dell’artista ben individuata, quella praticamente dell’informale in versione milanese e della bohème cittadina, chiusa nel quadrato di poche strade del centro e puntata tutta attorno all’ingresso (strani destini della cultura in Italia) dell’Accademia di Brera. Il Giamaica, quindi, una tappa obbligata. Eppure Mulas assume immediatamente una prospettiva diversa da quella che l”ideologia informale, che è sostanzialmente legata all’universo psicoanalitico, vuoi nelle sue accezioni freudiane che junghiane (4), induce nei suoi adepti; il suo interesse per i personaggi non è a livello del gesto. Forse, come del resto s’intenderà leggendo la sezione specifica sulla sua vicenda fotografica, è proprio la storia della fotografia come genere a chiudergli una strada come questa, ad impedirgli ciò di usare la stampa fotografica come “schermo” e, comunque, è la sua ideologia a bloccarlo su questa strada.
Mulas sperimenta le luci sui volti degli avventori, al Giamaica, documenta un gruppo di artisti, ma la sua è sempre un’attenzione al problema del personaggio, dei personaggi: non dà di questi temi una versione piacevole o descrittiva e, tantomeno, una lettura in termini proiettivi. La sua non è dunque poetica informale. Semmai, a volerlo inquadrare nella storia della pittura, che, di questi anni, resta il massimo dei suoi interessi, viene da collegare piuttosto alla cultura delle avanguardie, che tante volte torna come modello ideale nella civiltà delle sue immagini. Le foto di gruppo cioè dei caffè di Montmartre, oppure le immagini sempre di gruppo dei futuristi e dei dadaisti fattisi parigini o europei sono il bonario modello per l’idea della tavolata al fresco sotto il Giamaica, un giorno pieno di sole.
C’è sempre, dietro l’invenzione fotografica di Mulas, una profonda cultura, e una cultura specifica, storico-artistica. L’aspetto del rapporto tra Mulas e gli artisti (5), sul quale troppe volte tornano i suoi scritti perché qui se ne riparli, non offre che un punto di vista del problema, l’altro essendo quello più specifico delle scelte nei confronti delle avanguardie stori-che e delle loro poetiche.
Scartata, agli inizi forse anche per ragioni ideologiche, la ricerca informale come modello, Mulas tende ad accostarsi, in progresso, alla esperienza dadaista ed alla futurista, includendo in quest’ultima aspetti del futurismo russo e del costruttivismo. Vi sono, di ciò, molte specifiche ragioni tutte sul piano della autobiografia, della simpatia individua per determinati eventi, ragioni peraltro che mi sembrano affatto estranee al nucleo del problema.
Mulas esce da un momento di riflessione della cultura milanese proprio sulle possibilità e funzioni dell’artista e si forma in pieno dibattito tra informale e realismo; fare fotografie in questo tempo, per una persona che si professa di sinistra, potrebbe voler dire modellarsi su una cultura definita che va da Guttuso a Treccani, da Migneco a Levi, potrebbe voler dire assumere, ad esempio, dal film un tipo di rappresentazione del mondo alla Ciukrai. Mulas invece recupera coscientemente le avanguardie e la funzione delle avanguardie storiche. A dire il vero la sua è una coscienza intuitiva, come del resto lo fu quella di Schifano al tempo di Futurismo Rivisitato, del valore dirompente ed “evidentemente” delle contraddizioni che appunto assumono alcune ben precise avanguardie, comunque non è senza significato che la scelta di Mulas si sia indirizzata verso il dadaismo.
Questo infatti è il solo movimento che diversamente dal surrealismo, si ponga come alternativa effettiva alla cultura borghese, che cioè intenzionalmente ponga una alternativa alla funzione dell’artista, presupposta, data nel sistema dissolvendo appunto tale funzione. Il discorso, che potrebbe apparire schematico (6) dovrà essere altrove documentato, ma, per ciò che concerne Mulas, dobbiamo analizzare più da vicino il suo modo di costruire la fotografia, quanto meno nella fase terminale della sua attività prima delle “Verifiche”.
La fotografia di Mulas appunto è un bricolage, un sistema cioè di oggetti che sono compresenti e il cui accostamento o contrapposizione genera significato; Mulas respinge un tipo di fotografia accademico (anche se, come in molti dadaisti, il modello centrico della composizione è in lui dominante) e accetta la funzione del caso come componente della sua esperienza di realizzatore. La posizione di Duchamp, quella di Picabia e, sopra tutti, quella di Man Ray lo interessano a fondo e costruiscono, mi sembra, la sua stessa poetica.
Ora però dobbiamo, anche nel dadaismo che è stato l’accetto modello, vedere di individuare vari piani, prima di tutto quello iniziale che si collega all’Armory Show, quindi il periodo preparatorio di Dada Zurigo attorno al 1915, infine appunto, dal 1916, Dada Zurigo. Ed infatti il problema del rapporto con una grande cultura urbana, il rifiuto dell’oggetto artistico, la funzione dell’estraniamento di un oggetto dal proprio contesto sono tutte idee elaborate da Duchamp (e, in subordine, da Picabia staccatosi dal movimento cubista) e da Man Ray. Non diversa, se ben si riflette, è la funzione del fotografo, inteso almeno come Mulas è stato, che estrae, mostrandone le contraddizioni sistematiche, un’immagine da un contesto: soltanto che a Mulas non interessa tanto l’aspetto sistematico del movimento dadaista, il suo secondo tempo zurighese, quanto piuttosto questo atto del rifiuto, il rifiuto di una
cultura urbana, rifiuto che si manifesta nel respingerne i simboli, i resti che ne diventano simboli di decadimento.
Il fotografo, dice Mulas, non è un autore di furti di immagine, non deve stare con l’obiettivo vigile, in attesa di cogliere un’immagine fuggitiva, quella che gli permetta di individuare ciò che gli altri con l’occhio non sanno vedere; l’immagine, per Mulas, ha tempo e quindi durata ed è essa stessa simbolo del sistema, simbolo del contesto dal quale viene estratta; l’immagine deve essere quindi studiata, analizzata, ripercorsa nelle ragioni della sua inquadratura. Poi, naturalmente, e come suggeriva Man Ray fin dai Rayogrammes, le figure potranno determinarsi sulla carta sensibile per via di luce, senza l’obiettivo, che appunto, spesso, l’obiettivo coincide con un modo di trascrivere accademico, interno al sistema (è noto) della prospettiva rinascimentale. Mulas naturalmente accetta in ipotesi le tesi di Man Ray e quelle parallele di Duchamp quando (Apollinaire enameled) estraggono dal reale un “fatto” e vi appongono la ‘firma’, lo trasformano ciò in “evento”: Mulas ciò intende la funzione dadaista del fotografo e respinge l’altra, di stampo realistico, del fotografo-reporter, del fotografo che documenta.
Sì, certamente, anche per Mulas a volte il fotografo documenta, come nel caso della critica elaborazione del discorso di Strehler, quando ambedue hanno scoperto un metodo per registrare organicamente uno spettacolo teatrale con immagini centriche, riprese tutte dal medesimo punto e tenendo di fatto stabile, o dentro un arco convenuto, diaframma e tempo di posa così da poter rendere, con una stampa fedele ai negativi, le variazioni di luce e le velocità dei movimenti dei personaggi. Ma la fotografia di Mulas, quella inventata, costruita è altra. Il fatto stesso che egli sia andato a New York subito dopo la Biennale del 1964, appunto a conoscere la pop art americana, sembra non casuale. Duchamp gli aveva insegnato il valore dell’estraniamento e la funzione del gesto; siamo ormai in un tempo, quello della fenomenologia, nel quale la riflessione europea si sposta dal fatto all’«evento», e Mulas intende il segno di questa cultura e va a New York, la città dell’Armony Show e ora dei pop, a fotografare questi personaggi nel loro contesto. Ogni foto del suo libro come le moltissime altre scattate muove da alcuni presupposti ormai maturati e importantissimi.
Il fotografo è testimone di un fatto, la sua dialettica con questo non deve pregiudicarlo, non deve farglielo guidare, il fotografo però nello stesso tempo è parte dell’ “evento”, poiché naturalmente la sua comprensione a sua volta incide sul sistema descritto. I personaggi sono dunque lasciati ad agire, come se lo studio fosse un palcoscenico e l’operazione pittorica fosse un momento pubblico (Mulas è il pubblico, è il testimone) da illustrare nei suoi vari atti. Mulas affronta, in queste immagini, problemi di durata, problemi di composizione, di resa del movimento, di comprensione di un evento e non di uno spazio soltanto, la sua è un’operazione totale e la fotografia diviene momento di comprensione totale, quindi di comprensione critica. La capacità, che gli deriva dalla fenomenologia, di intendere il valore del gesto, l’interesse per Duchamp che cammina, semplicemente cammina, per le strade del Central Park di New York sono un’eco lontana delle riflessioni sul movimento Dada. In fondo le riprese di studio degli americani e un collage di Schwitters non sono sostanzialmente differenti, al contrario presentano molti elementi in comune.
Naturalmente l’universo di discorso dei due è affatto diverso, Schwitters disseziona i resti della nostra cultura e li ricompone simbolicamente, Mulas individua i personaggi del teatro culturale americano e li fa recitare sulla sua scena; in ogni caso decide un punto di vista fisso o mobile, un luogo di stazione, una determinata luce, stabilisce se usare un grandangolo o una focale lunga, soprattutto monta “alla lettera” il sistema degli oggetti; dentro gli studi pop ripresi da Mulas si consuma ancora una volta quel tipo di rifiuto dell’universo americano che era stato di Duchamp. In questo senso non è molto importante che, in alcuni casi, le feste dagli artisti appaiano come happenings, perché l’intero sistema descritto è un recital, puntato su una decina di protagonisti sui quali, tutti, emerge, per esplicito desiderio di Mulas, appunto Duchamp.
Il fotografo è un critico, nel caso di Mulas è un critico (7) in doppia direzione, in prima istanza in quanto cosciente di un processo linguistico altrui sul quale opera apparentemente a livello di metalinguaggio, e ciò adoperando, poniamo, la lingua fotografica per analizzare il sistema della pittura o quello della scultura. Sarebbe peraltro da notare che la lingua fotografica ad una riflessione più precisa non è effettivamente un linguaggio nuovo nei confronti della figurativa e che quindi lo strumento critico è uno strumento critico interno al sistema analizzato. La seconda direzione o livello del discorso critico di Mulas nasce dalla sua convinzione di poetica, e ciò che il mondo può essere estraniato appunto attraverso il modello fotografico. Nulla di più distante, in questo senso, dalla cultura occidentale cubista, o ancora dal simbolismo del Die Brücke o di Der Blaue Reiter; l’artista invece è un ideologo, la sua capacità di scelta diventa scelta ideologica. I modelli figurali, e sarà chiaro anche nelle “Verifiche” e in una particolarmente, l’autoritratto con Nini, sono ancora nelle avanguardie, in Tatlin e Lizinskij, in Malevitch e in genere in quei movimenti che hanno contestato il sistema della nostra società portando avanti una ricerca linguistica.
Mulas insomma analizza le contraddizioni nell’universo borghese dell’immagine sia che fotografi un gioiello su un corpo nudo sia che esperimenti la funzione sradicata dell’artista isolato lui stesso nel proprio studio, personaggio su un palcoscenico, dicevo, che recita, su copione di Mulas, un monologo alla Jonesco, quello del proprio fare l’immagine.