13. Autoritratto con Nini.
A Melina e Valentina. 1972
Ho voluto tornare sul tema dell’autoritratto, del volto del fotografo cancellato o impreciso. Qui, su uno stesso fotogramma, Nini e io siamo insieme: Nini è a fuoco, io sono sfocato. È a fuoco perché ero io a fotografarla, la vedevo così e così volevo vederla, perché voglio sempre vedere col massimo di chiarezza quello che mi sta davanti, e fotografare è vedere e voler vedere, prima di tutto. Il mio viso è sfocato perché c’è una sola parte del mondo sensibile che l’uomo, che “può vedersi mentre guarda” secondo Merleau-Ponty, non riesce a vedere di sé: il viso. Tutt’al più si può rendere un’idea approssimata, attraverso la memoria di altre fotografie, il narcisismo di una superficie riflettente, qualche riferimento casuale, ma l’immagine resterà imprecisa, sfocata.
Quando il fotografo lascia l’apparecchio dopo averlo messo a punto, per trasferirsi dall’altra parte, questa realtà non muta e lui continua a non potersi vedere. Mettendo a fuoco la macchina gli è chiaro ciò che lo circonda, e può vederlo con estrema lucidità, ma il suo viso nell’obiettivo è assente. Mettere uno specchio davanti alla macchina è ingenuo, perché il discorso resta fra me e la macchina, e non fra la macchina e lo specchio.