DUCHAMP e NEWMAN
Ho già accennato al mio lavoro sui pittori americani, e al significato che ha avuto per me e per la mia esperienza. Probabilmente non mi sarei imbarcato in questa impresa senza l’amicizia che mi mostrarono fin dall’inizio Leo Castelli e Alan Solomon, che avevo conosciuto alla Biennale del ’64. Castelli mi aprì tutto il giro dei pittori, dei collezionisti, musicisti, amici, mentre Solomon mi accompagnava negli studi, in un modo tutto suo. In un primo tempo ero preoccupato di questa presenza, perché temevo che volesse usarmi per fare un certo suo discorso. Ma Solomon non interveniva mai, non diceva nulla, stava in disparte, ascoltava dischi o leggeva un libro, a un certo punto se ne andava, mi lasciava solo. Ho avuto allora il terrore opposto, di essere allo sbaraglio; spesso chiedevo delle spiegazioni, ma Solomon sorrideva e taceva. Evidentemente non voleva sovrapporre altre complicazioni a quelle che già mi si presentavano; e poi soprattutto aveva un grandissimo rispetto del mio lavoro, pensava che aveva più senso un mio errore che un suo suggerimento al fine di questo racconto, che poi era, in fondo, un mio viaggio dentro la pittura americana, dentro una certa New York.
A New York nessuno mi aveva mandato, mi ero mosso da solo, volevo capire ed essere testimone. Andavo negli studi senza sapere l’inglese, pronunciando appena le parole indispensabili, cercavo di non occupare posto, di non farmi sentire, di non intralciare il lavoro che facevano gli artisti.
Quando fotografo un pittore, spesso cerco una possibilità per uscir fuori da quella che è la foto di cronaca, e cerco anche di evitare il normale ritratto, il bel ritratto, perché quello che mi interessa è dare un’idea del personaggio in rapporto al risultato del suo lavoro, cioé di capire quale dei suoi modi e atteggiamenti è decisivo rispetto al risultato finale. Per alcuni pittori il non fare è più importante del fare. Certo non è facile rendere questo atteggiamento di apparente passività, capire che sotto c’è una complessa carica di energia, l’ attesa di un evento che in certi casi si può anche risolvere in un attimo, in un gesto. Per esempio, fotografare Newman mentre dipinge una delle sue grandi tele dove due o tre rette verticali dividono lo spazio, non aiuta molto a capire, perché chiunque vedendo il quadro può immaginare com’è stato dipinto. È più curioso vedere quanto fosse meticoloso nel preparare lo studio prima di cominciare a dipingere: il fatto che mettesse dietro a ogni tela delle carte in modo che il muro non si sporcasse di colore lo stesso ordine dello studio, rivelatore di un atteggiamento psicologico di quest’uomo estremamente meticoloso in tutto, anche nel vestire, molto elegante e sempre perfettamente a posto. Comunque in questo caso una fotografia è semplicemente un documento, che poi gli altri interpretano come vogliono. In questo caso mi sento troppo spersonalizzato, sicché, cerco di capire quello che sta succedendo, di capirlo fotograficamente: cerco di fare in modo che il documento abbia già una sua chiave di lettura, che sia a sua volta un discorso definito. Quando si guarda una di queste fotografie, bisogna anche analizzare il perché è stata fatta in quel modo; non si può capire quello che il pittore fa senza capire quello che io il fotografo ha fatto, bisogna rendersi conto che il mio punto di vista non è soltanto ottico, ma è anche e soprattutto mentale. Così per Newman contava il suo rapporto con la tela, l’entrarvi lentamente con un processo di concentrazione che ne determinava le misure, lo spazio, le partizioni. E non vedo come meglio si potesse esprimere da parte mia questa scansione se non fotografando il particolare della tela dipinta da Newman dove, ai margini della linea di colore, sta la firma e l’indicazione dell’inizio e della fine de lavoro, ciò la data d’avvio e quella della conclusione.
Le stesse fotografie di Duchamp vorrebbero essere qualcosa di più di una serie di ritratti più o meno riusciti, sono anzi il tentativo di rendere visivamente l’atteggiamento mentale di Duchamp rispetto alla propria opera, atteggiamento che si concretizzò in anni di silenzio, in un rifiuto del fare che è un modo nuovo di fare, di continuare un discorso.
Quando si fa il ritratto a una persona, si può assumere un’infinità di atteggiamenti verso chi fotografa. Non c’è ritratto più ritratto di quello dove la persona si mette là, in posa, consapevole della macchina, ciò verso il fotografo, come per ingannarli, dire “io sono qui, ma fingo di non sapere che voi ci siete, così la mia finzione sarà più credibile”. Invece fotografare uno mentre fa qualche cosa è registrare un fatto, quindi fare della cronaca. Il ritratto in un certo senso è qualcosa di più nobile, rispetto alla fotografia di cronaca, purché non ci sia nessuna reticenza, nessuna finzione verso l’operazione nel suo insieme, che deve essere la più scoperta, la più diretta possibile. Però anche posare è un fare, in un certo senso: sicché se fotografavo Duchamp in posa arrivavo a un circolo vizioso. Comunque, posare era l’atteggiamento più vicino al non fare, perché qualsiasi altra cosa Duchamp avesse fatto sarebbe stato qualcosa in più e qualcosa di troppo. I ritratti in casa o al museo non mi bastavano: l’ho voluto riprendere mentre camminava, perché mi sembra che il camminare sia l’atteggiamento del vivere più elementare, e fotograficamente più significativo, un fare sganciato dal produrre, l’atteggiamento più evidente del vivere e basta.
Così ci sono alcune foto di Duchamp che cammina da casa sua a Washington Square. Poi abbiamo trovato (ma lui lo sapeva!) che su certi tavolini di cemento o di pietra tra gli alberi di Washington Square c’era il disegno di una scacchiera. Avevo già fatto delle foto di Duchamp mentre giocava a scacchi, che però ho scartato perché troppo discorsive; mentre ho scelto queste fotografie di Duchamp all’aperto, seduto al tavolino con la scacchiera senza gli scacchi; anzi, Duchamp non guarda nemmeno la scacchiera; la scacchiera diventa un simbolo; e un simbolo ancora più preciso proprio perché è all’aperto, fuori dal suo contesto abituale. C’è nell’atteggiamento di Duchamp qualcosa di spavaldo, con gli occhi socchiusi perché gli batteva il sole direttamente in faccia.
Poi ci sono delle foto fatte in casa, sono i ritratti di cui parlavo prima; con queste ho cercato di portarlo ad assumere degli atteggiamenti rivelatori del non fare, di quel silenzio che già in quegli anni tanto pesava sull’opera dei giovani artisti e oggi sembra pesare sempre di più sul loro comportamento. Allora insistere su Duchamp che guarda le cose sue o di altri ormai così lontane nel tempo (Duchamp dice “si può veder vedere, non si può sentir sentire”) è un po’ come mettere l’accento sulla sua rinuncia. Ecco Duchamp, seduto in quella poltrona famosa, con quel sigaro perennemente in mano, che guarda una vecchia fotografia di Marcel Duchamp che gioca a scacchi con una donna nuda. Ed ecco ancora Duchamp nel suo soggiorno a New York seduto su una scultura di Brancusi. Qui Duchamp non fa assolutamente nulla, è preso un po’ di spalle, mentre il viso è quasi di profilo, ha l’atteggiamento di uno che guarda altrove.
Infine siamo andati al Modern Art Museum, e qui fu emozionante fotografarlo tra le sue opere di una cinquantina d’anni prima, mentre le guardava come se non gli appartenessero, farlo posare con le spalle appoggiate al muro, opera d’arte lui stesso vivo fra le sue vecchie cose.
Da “La Fotografia” Fotografie e testi di Ugo Mulas, Giulio Einaudi Editore Torino 1973